LA CHIAVE D'ARGENTO
La chiave d’argento è un famoso racconto dello scrittore statunitense H.P. Lovecraft, pubblicato per la prima volta nel gennaio 1929 sulla rivista Weird Tales. Protagonista è Randolph Carter, rampollo benestante di una antica famiglia coinvolta in passato nella caccia alle streghe di Salem. Per tutta l’infanzia e la prima giovinezza Randolph ha avuto visioni nitide e lucide di una terra oltre la nostra dimensione, raggiungibile attraverso una fede pura e una chiave d’argento. Crescendo i sogni si sono diradati, la chiave è stata dimenticata e Randolph ha finito per trascinarsi in una vita insoddisfacente, nel rimpianto dell’età dell’oro perduta. Ha anche meditato il suicidio, senza metterlo in atto; gli studi di esoterismo non riescono a colmare il vuoto della sua esistenza. Poco a poco però i sogni tornano e con essi la visione che svela il nascondiglio della chiave. Giunto nel luogo prescelto, stringendo la chiave riesce a riaprire il varco verso il mondo di sogno tanto desiderato, e così facendo scompare da questo piano di esistenza.
E’ un racconto molto poetico, che si inserisce nel corpus delle leggende create da Lovecraft e narra il percorso esistenziale di un sognatore come era lo stesso Lovecraft: all’orrore per le creature che minacciano l’umanità si sostituisce il lirismo, il rimpianto accorato per un mondo onirico dove passato e presente si confondono.
Il senso elegiaco viene colto perfettamente da Ciriaco Tosi, critico cinematografico, regista e poeta, che nel 1981 ha realizzato il film La Chiave d’Argento, dirigendolo e scrivendone la sceneggiatura. L’autore immagina che Lovecraft e Carter siano in realtà la stessa persona; inizialmente il racconto delle vicende di Carter è affidato a Lovecraft stesso, la verità però si inizia ad intuire non appena si vede che i due uomini hanno lo stesso volto. Anche la vita del Solitario di Providence è stata analoga a quella del suo alter ego letterario, entrambi uomini introversi, precoci nell’apprendere, dediti alla scrittura, capaci di sognare ad occhi aperti realtà ‘altre’.
Il racconto è quindi narrato dallo stesso autore, in un italiano con un forte accento esotico. Per quasi tutto il film, la sua voce fuoricampo accompagna le peregrinazioni di Carter. C’è poco dialogo in questa pellicola, che ben descrive il senso di incomunicabilità del protagonista incompreso dalla società e incapace a sua volta di condividere le gioie e le emozioni delle persone comuni. Disprezza la sua vita sebbene agiata in quanto può fare paragoni tra la sua terra dei sogni e la loro banale quotidianità. Le poche battute sono molto significative e il protagonista, interpretato da Jobst Grapow, domina la scena e ha la giusta espressività e presenza fisica adatta ad un eroe tormentato e introspettivo.
Ci sono ampi silenzi riempiti da musica sinfonica, e il ritmo narrativo è lento e solenne, come è giusto sia per una storia a suo modo epica. Carter si impadronisce della chiave e recupera il valore della sua vita onirica più reale, ed il suo è un cammino da eroe, una Cerca che prevede l’abbandono delle certezze in nome di un ideale superiore. Carter in fondo è più simile a Parsifal che agli studiosi alle prese con l’occulto delle altre opere del visionario scrittore. Come il cavaliere della Tavola Rotonda, più che combattere nemici concreti si trova a dover compiere delle scelte basate sulla propria illimitata fede, ed è un personaggio che supera i limiti imposti ai comuni mortali grazie alla certezza che ripone nelle proprie aspettative, nella speranza di un mondo ‘altro’ che si schiude ai sognatori.
In questo senso le lunghe sequenze che descrivono l’incedere di Carter nelle vie della città, o le sue peregrinazioni nella campagna di Arkam hanno un senso compiuto, lontano dalle frenesia adrenalinica tipica dei fantasy convenzionali.
Poetico è l’arrivo alla casa dell’infanzia: Carter si addormenta e viene destato dai richiami dei suoi parenti, nel nostro mondo defunti da tanti anni. Rivede il passato, il sé bambino, e solo allora, purificato dal percorso della sua ricerca, può accedere alla grotta dove si compirà il miracolo e finalmente potrà lasciare il nostro mondo… magari per tornarvi nei panni di H.P. Lovecraft.
Il senso del rifiuto della modernità pervade tutta la pellicola, che non ha la pretesa di portarci in un periodo storico preciso, anzi, gioca sul senso di spaesamento che aleggia su ogni scena. L’assenza di richiami al mondo contemporaneo, la mescolanza di arredi liberty e vittoriani con automobili prodotte successivamente, abiti del dopoguerra e contemporanei, aumenta la sensazione di assistere a un ciclico ripetersi di eventi che si svolgono in un tempo misurato diversamente da quello scandito da orologi e calendari. Se anche questa scelta fosse stata dettata principalmente da ragioni economiche, il regista l’ha sfruttata nel modo più intelligente. In questa ottica intrisa di onirismo ha senso che non ci siano effetti speciali, eccetto la luce finale nella grotta, e i costumi e le locations trasmettano atmosfere sognanti.
Non è un caso se questa pellicola non è un b-movie ma è un’opera inconsueta, prodotta dalla RAI quando ancora si poteva permettere scelte coraggiose incoraggiando il cinema d’autore. E’ stata presentata alla Mostra del Cinema di Venezia 1981, Sezione Officina Veneziana, e in altri festival. Consigliata a tutti quanti sono stanchi di film prevedibili.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi su Facebook
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