BARBIE

Quando si pensa alla Barbie, le reazioni sono le più diverse. Fino a qualche anno la le ex bambine evocavano un mondo roseo con una bambola che per la prima volta aveva proporzioni e misure tali da diventare una specie di marionetta, e quindi si prestava a rivestire tutti i ruoli più ambiti. Gli ex bambini ricordavano con orrore un tipo di giocattolo destinato univocamente alle femmine. In tempi più recenti la bambola è stata accusata di rappresentare un modello irraggiungibile da parte di gran parte delle bambine, spesso ostacolate dalle crudeltà della genetica o da un ambiente socio economico sfavorevole. Sarebbe Barbie a spingere le giovanissime all’anoressia, alla depressione e anche alla prostituzione, pur di racimolare i soldi necessari per il chirurgo estetico o per comprare abiti e accessori alla moda. Sia l’aspetto, sia il tenore di vita erano e sono molto al di sopra delle reali possibilità di una donna ‘media’. In realtà la famosa bambola incarna tante contraddizioni, è la speranza di poter essere ciò che ci piace, è la disperazione di quante scorgono ostacoli insormontabili. E’ un ideale estetico ma è allo stesso tempo un modello kitsch. Può apparire sbrigativo liquidarla come un prodotto ideato per un consumatore ben preciso, figlia del boom economico e del Sogno Americano. E’ un’icona e, in un certo senso, un termometro sociale e se si volesse capire cosa desidera ancora oggi il ceto medio americano, bisognerebbe considerare l’aspetto della bambola, ed i suoi accessori. Barbie esiste in molte versioni etniche, ma ha sempre gli attributi fisici che un europeo considera attraenti; ha accessori per interpretare mestieri considerati vincenti, per praticare sport alla moda; vive in case coloratissime, ville con giardino per il barbecue… perché ha anche amici, altrettanto dotati o ritirati presto dalla produzione. In modo più o meno consapevole, è il modello di vita ideale voluto e creato dall’American Way of life, e spesso irraggiungibile. Nessuno però chiarisce se sia un’ideale voluto davvero dalle donne o imposto loro dalla società. Questa riflessione è alla base del film Barbie di Greta Gerwig, e la domanda si può facilmente estendere dalla condizione femminile a quella di qualsiasi creatura senziente che viva in una società votata all’omologazione e al consumo di beni. Barbie è stata creata da una donna e doveva rappresentare la possibilità per le bambine di sognare di diventare qualcosa diverso dall’essere mamma - ruolo imposto dai grossi bambolotti che potevano solo essere bebé. L’idea rivoluzionaria si è però sviluppata secondo direttive dettate da una società maschilista, e oggi è in crisi: perciò Barbie deve ritrovare sé stessa, conquistarsi il diritto di decidere come voler essere, anche quando la scelta fosse fondamentalmente poco saggia. Un diritto, questo, che non riguarda solo le donne, quanto ciascuno: tutti abbiamo dei modelli ideali che ci ispirano, e dovremmo sapere se sono proprio quanto desideriamo davvero o invece sono ‘pacchetti’ che qualcuno ci propone pur di costruirci uno stile di vita conveniente, che assecondi e sfrutti la pigrizia e ci faccia scegliere quanto fa comodo a terzi.
La martellante pubblicità che ha preceduto l’arrivo nelle sale della pellicola ha creato interesse e qualche fraintendimento: ci si poteva attendere un live action ispirato alla moda attuale, con una sceneggiatura studiata per far vedere quanti più modelli di bambola ed accessori possibili, musiche e balli, e un intreccio esile e spensierato. Queste aspettative sono state in gran parte disattese. E’ vero che il mondo della bambola, le Barbie e i loro accessori vengono esibiti, che ci sono volti piacenti, tanti effetti speciali  e canzoni alla moda, però l’intreccio è semplice e diretto perché deve veicolare un messaggio nel modo più chiaro possibile. La  regista ha diretto un film anomalo, suscitando polemiche al pari delle più recenti trasposizioni Disney che rivisitano fiabe classiche con cambi di etnia o di genere dei personaggi, o con riscritture modernizzate. La pellicola Barbie ha poco a che fare con i tanti cartoni animati che vedono la bambola protagonista di classici letterari o di balletti fiabeschi o di storie originali sempre legate a filo stretto con accessori acquistabili a parte. Il film è solo apparentemente un live action, in quanto la bambola e i suoi amici sono interpretati da attori in carne ed ossa e non da cartoni animati per quanto oggi possano essere create immagini sofisticate e simili a persone. Ogni similitudine si ferma a questa caratteristica: c’è un personaggio immaginario, derivato da un giocattolo commercializzato e popolarissimo, portato in scena da attori.
La protagonista Barbie vive a Barbieland, un mondo colorato di rosa dove esistono tante altre Barbie e ciascuna occupa una professione di prestigio. C’è la sirena, la stilista, la dog sitter, la veterinaria, la ballerina e la scrittrice, l’avvocato, la sportiva... Ken è relegato a fare giochi innocui sulla spiaggia, estromesso da qualsiasi posizione di potere, come quei personaggi che non sono Barbie e quindi non sono maschi alpha ( come Allan ) o femmine alpha ( le amiche non Barbie, e la sorella Skipper). La protagonista è Barbie Stereotipo, la più tipica delle Barbie; nella sua terra quasi tutte le donne sono Barbie, chi sportiva, chi giornalista, chi dottoressa… In quel mondo matriarcale tutti i maschi e quante non rispondono ai cliché estetici e comportamentali vengono messe da parte come un ricordo fastidioso. Un giorno Barbie Stereotipo inizia a pensare alla morte e l’indomani scopre il suo corpo cambiato in peggio, con cellulite e piedi piatti. Mentre le altre Barbie si disgustano, l’unica ad offrirle sostegno è la sfigurata Barbie Stramba, che la spinge a recarsi nel mondo reale per conoscere la persona che gioca con lei. Nel viaggio viene però seguita da Ken, e per entrambi ci sono scoperte che cambieranno il loro modo di vedere la vita…
Oltre a distaccarsi dai live action ormai inflazionati e spesso deludenti, la pellicola è un rilancio intelligente del marchio Mattel, surclassato negli ultimi anni da altri marchi come la Hasbro. La motivazione ideologica va di pari passo con quella commerciale, poiché le vendite della bambola hanno avuto flessioni nonostante il mercato si sia allargato agli adulti collezionisti di modelli a serie limitata o vintage. L’intento commerciale è ben dosato in una pellicola che celebra l’icona adattandola però al nuovo modello di società, sempre meno legato a stereotipi di genere. La regista pone allo spettatore le stesse domande che un direttore di industria di giocattoli dovrebbe porsi se vuole continuare a fare affari d’oro. La celebre bambola deve rimanere riconoscibile, però deve modificare almeno in parte le attitudini di un tempo e interpretare i nuovi sogni delle potenziali acquirenti. Il suo matriarcato deve svincolarsi dagli stereotipi che le ha imposto una società maschilista, e tornare davvero in mano alle donne.
Barbie nel suo regno ha il meglio di quanto la vita può offrire, ma le è stato attribuito da chi l’ha ideata e non lo ha conquistato per davvero con le proprie forze, con impegno e con fatica. Nasce già dotata e fortunata, felice di vivere giornate sempre identiche in una terra di plastica dove il sole splende sempre e si sorride dalla mattina alla sera. Le bambine di oggi vogliono identificarsi in un personaggio di bell’aspetto, glamour, però che sia capace di decidere della propria vita e non si faccia imporre ruoli, né modesti né invidiabili. Si prospetta anche l’allargamento del mercato ai ragazzini, con la rivoluzione che poco a poco dovrebbe integrare i Ken nella vita attiva della loro terra. Barbieland di fatto non piace ai maschi perché è a misura di stereotipo femminile, non è il fatto in sé di essere una bambola ad allontanarlo dal cesto dei balocchi dei maschietti. Anche il testosteronico Action Man è un bambolotto come Ken, se gli si tolgono i fucili e gli abiti militari, e forse sarebbe anche l’ora di levarglieli, se si pensa alle sparatorie che di tanto in tanto scuotono l’America là dove è meno difficile procurarsi le armi e la gente si rende conto di non potere, con il proprio impegno, modificare radicalmente il proprio status.
Le riflessioni vengono porte con garbo didascalico, confezionate al meglio, con un’estetica tutta glamour e strizzate d’occhio al musical.
Si può uscire dal cinema perplessi e sorpresi, forse delusi, ma non indifferenti.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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