I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE

A.I. INTELLIGENZA ATRIFICIALE: do ANDROIDS DREAM of ELECTRIC MUMS?

Un robot che deve sostituire i figli in famiglie che hanno perso o non possono avere una propria creatura: questo è il presupposto assai interessante per il film A.I. Intelligenza artificiale, nato da progetti di Kubrick rielaborati da Spielberg, e propagandato con una campagna pubblicitaria che ha messo avanti a tutto i nomi dei due cineasti.

PRESUPPOSTO DISCUTIBILE MA FIABESCO

La vicenda narrata parte da un’idea futuribile, simile a una fiaba: ovvero poter realizzare robot sofisticatissimi, simili a esseri umani, in grado di riprodurne i comportamenti e capaci di elaborare emozioni.

Spielberg dimostra di conoscere poco il mercato e le sue leggi, per la realizzazione di David l’androide. Ogni psicologo specializzato in marketing confermerebbe che pochi sarebbero disposti a sostituire anche solo il ricordo di una persona scomparsa con un replicante del tipo presentato. Preferirebbe semmai la clonazione se disponibile, o un’adozione, oppure un animale da compagnia, piuttosto che accogliere un simile essere! Gli androidi del film sono imperfetti: replicano l’uomo, ma lo fanno a modo loro, da macchine. A un modello di automa da sesso – come il gigolò – si chiede solo la prestazione, e lo stesso vale per un mecha da lavoro. In famiglia, invece, si tratta di imitare 24 ore su 24 per molti anni di seguito uno specifico essere umano, comportamenti, vizi e pregi. L’illusione di (ri)avere una persona muore presto, se mai era nata… Finisce appena il genitore si accorge che il robot non ha bisogno di dormire, non può bere, non deve mangiare e non va in bagno. Inoltre non cresce, né invecchia, si affeziona a una sola persona tramite un imprinting elettronico e, se non soddisfa le aspettative o se muore il proprietario, viene rispedito in fabbrica per essere distrutto.

Se anche esistesse un prodotto simile, probabilmente resterebbe invenduto! Rammentare un umano senza esserlo poi fino in fondo è improponibile, peggio che essere un comune robot, poiché l’uomo pensa per categorie, e quanto sfugge alla catalogazione della mente crea ambiguità che a sua volta scatena il turbamento, da cui nascono paura e odio. Una famiglia normale, seppure provata da una disgrazia, rifiuterebbe un elettrodomestico del genere, per quanto sofisticato. Come accade nel film, nel quale si ipotizza un’aberrazione ancor peggiore: realizzare un robot specifico per situazioni luttuose e farlo in serie; il Creatore di Androidi ha una bella sfilata di David, tutti con le facce uguali. Agli androidi umanizzati per lavori particolari posso credere, a questo no. Ovvio, il regista chiede allo spettatore di stare al gioco ed accettare le atmosfere da fiaba tecnologica. A voi spettatori la scelta d’accettare il presupposto narrativo di un oggetto pensante che difficilmente verrebbe immesso sul mercato.

SENTIMENTI E SENTIMENTALISMI

Spielberg cerca di andare sullo strappalacrime, e ci potrebbe riuscire se non esagerasse e se non ci dicesse subito con enfasi didascalica che il piccolo è un robot. Pensate come sarebbe stato bello se ci avesse mostrato un mondo tecnologico con androidi da lavoro, e un bambino abbandonato, maltrattato, emarginato, rivelando solo a tre quarti della storia che la creatura era una macchina sofisticata! Spielberg purtroppo non ha mezze misure quando gioca con i sentimenti, scopre le sue intenzioni. In questo caso è inopportuno. È troppo retorico, e parte con un presupposto assai discutibile che modifica la percezione dello spettatore-critico. Tutti i sentimenti dell’androide sono programmati. Il suo lavoro è dare amore alla “mamma” senza pretenderne in cambio, essere buono, obbediente e simile a un bravo figliolo. È dolcissimo, il bambino che tutti vorremmo avere, questo grazie a un bel complesso di chip e programmi. Ora, il suo affetto è tutto tranne che frutto di una libera scelta: ma quale valore ha amare se non si può odiare? essere buoni se non si può essere cattivi? Il robot elabora sentimenti, certo, ma solo quelli programmati per lui; non esistono colpe né meriti per un essere che non decide della propria vita poiché un software ne fabbrica la coscienza e la simula… Al di là della sicura presa psicologica sullo spettatore emotivo, il melò dell’abbandono e della disperata fuga poco aggiunge a un personaggio che è così perché, come direbbe Jessica Rabbit, “lo hanno disegnato”. Invece di piangere sulle sue disgrazie, ci si ricorda che è solo una macchina sofisticata, somigliante a un bambino, senza facoltà di scelta, destinata a un lavoro particolare come il pc su cui scrivo!

KUBRICK: MAESTRO, DOVE SEI?

Kubrick è tutto nelle musiche, nelle inquadrature, nei silenzi, nel finale che riprende stilisticamente 2001: Odissea nello spazio, … e nelle troppo pretenziose e furbe citazioni del nome! Difficile stabilire quanto avesse predisposto Kubrick, lo ritroviamo nella forma e nello stile, e nella prima delle tre parti. Dopo di che il cuore commerciale di Spielberg cede alla tentazione di autocelebrarsi. Viviamo l’ arrivo della creatura come la scoperta di ET, la fiera della carne è troppo simile ai lager di Schindler, gli alieni robotici versione “Incontri ravvicinati“ remix anno 2001, e si scivola in atmosfere deamicisiane nell’ingrato e discusso finale. Il peggio in questo caso è tutta la pubblicità puntata sul nome di Kubrick, che conduce a sicura delusione il cinefilo DOC. Il film infatti ha le caratteristiche dei buoni film di Spielberg, nulla di meno e nulla di più: curatissimi, spesso moraleggianti, tecnicamente perfetti, in apparenza sognanti o fiabeschi; insomma un grande artigianato e il miglior compromesso tra cassetta e qualità, tra la formula di intrattenimento onesto e quella di cinema didattico e serio, con alti e bassi dovuti alla necessità di coinvolgere a tutti i costi l’emotività. Se Kubrick avesse girato il film, probabilmente avrebbe mantenuto un tono assai meno sentimentale, senza sacrificare l’emozione! Nessuno ce lo può dire. Davanti allo spettatore, invece, c’è un omaggio convincente a metà, se si pretende di ritrovarvi Kubrick, anche se il film è particolare e non passerebbe comunque inosservato. L’aver sbandierato il nome di un così grande Maestro contribuisce, nelle persone dotate – per propensione o per vissuto – di un animo disilluso, a destare una sorta di cinismo che porta a vivisezionare quanto si vede e a dubitare delle intenzioni di chi ce lo mostra. Succede indifferentemente a chi si intende di cinema e a quanti non conoscono aspetti tecnici, basta siano disillusi.

Dimenticate Kubrick mentre vedrete questo film. Vedetevi un bel film di Spielberg sapendo che nel bene e nel male è suo.

OSAMU TEZUKA, CHI ERA COSTUI?

Il grande disegnatore giapponese, morto nel 1989, che creò, oltre a vari altri capolavori, il famoso Tetsuwan Atomu (Astroboy).

Questi è un bimbo robot con parecchie delle caratteristiche riconoscibili nel David protagonista di A.I., almeno nelle prime uscite del manga. Una quarantina di anni fa, Tezuka descrisse un mondo del 2003 simile esteriormente a quello del Metropolis di Fritz Lang. Un mondo del domani con automi necessari al benessere e al progresso, ma discriminati (o, piuttosto, trattati da robot), in una società multirazziale con tanto di alieni tra i terrestri, guerre e tensioni varie. Immaginò un geniale scienziato costruttore di automi, il professor Tenma, e gli fece perdere l’unico figlio in un incidente d’auto. Lo scienziato reagisce alla disgrazia fabbricando un robot identico al bambino, salvo poi abbandonarlo quando l’automa, pur rappresentando una sofisticata punta di diamante della categoria, non si dimostra abbastanza umano: come David, non cresce, non invecchia, rappresenta solo il sogno fallito di Tenma di sostituirsi al Creatore!

Nel seguito del celebre manga, il robottino trova famiglia e diventa un eroico difensore del bene contro l’ingiustizia, ma questa è un’altra storia, legata a uno sviluppo “facile” e adatto a spettatori d’ogni età. Il triste è che le produzioni americane hanno saccheggiato l’opera dell’autore giapponese senza dedicargli nemmeno una riga di citazione, un ringraziamento. Eppure David è il fratello glamour di Astroboy, come Simba The lion king lo è di Kimba il Janguru Taitei!

COLLODI E GLI ALTRI

Si cita Pinocchio, ovvio, ma quale Pinocchio conoscono in America? Il Pinocchio di Collodi è un capolavoro che ha alle spalle un’epoca (il fine 800 ) e un’ambientazione (la Toscana). con atmosfere sospese tra la dura quotidianità (fatta di miseria, di emigrazione, di duro lavoro), e la magia.

Non a caso Geppetto scolpisce il corpo di Pinocchio, ma non certo la sua anima… neppure riesce a spiegarsi come mai il tronco parli. Di certo la coscienza infusa a Pinocchio non è un atto volontario di Geppetto, che anzi trova il legno fatato già parlante – a differenza del barone Von Frankenstein, o del Rabbi Loewe che incide la magica parola sulla fronte del Golem. In Collodi c’è volutamente mistero… o lo si accetta o non si ama Pinocchio. Diverso assai è David, artificiale nel corpo e anche nello spirito. La magia e il mistero si spezzano pensando che magari, tra duecento anni, avremo davvero androidi in vendita. Cosa rimane di Collodi? Una spruzzata lieve, e forse ereditata più dalla tradizione cinematografica disneyana che da quella letteraria. Pinocchio costruito dal falegname per non restare solo nella povera e disperata vecchiaia, animato dalla fata che ha le sembianze della defunta moglie del falegname, è tutto di Comencini e del suo struggente sceneggiato. Quello che resta nel film di Spielberg è scenografia, o brevi riferimenti disneyani, forma e non sostanza. In più, il robot americano non è un discolo irriverente, né esiste possibilità per lui di diventare vero… e questo rende il confronto con la fiaba italiana davvero deprimente!

IL DOLCE SU E GIÙ – MI PERMETTE MAESTRO?

Gli attori sono bravissimi, tanto che da soli reggono il confronto con effetti speciali e azione, senza venirne schiacciati; la fotografia è patinata e valida, l’uso della macchina perfetto, la sceneggiatura… quella un po’ meno. Ci sono buchi e passi illogici, fughe impossibili, momenti di stanca e altri copiati da film di genere ma realizzati peggio. Alti e bassi che a volte annoiano lo spettatore, anche per la lunghezza del film. La divisione in tre parti della vicenda è un po’ troppo netta e i toni non si fondono alla perfezione. Si toccano troppi temi cari alla fantascienza, dalle città sommerse, ai replicanti, alle arene da combattimento, gli alieni, o meglio i robot del domani, e poi l’esperienza esistenziale del Sogno. Gli stili variano e l’amalgama in alcuni punti fatica a trovarsi. Inoltre Spielberg pare voler mettere impegno sociale anche quando e dove sarebbe meglio risparmiarlo. Niente di male, nell’intento educativo di per sé, soltanto a volte esagera e aggiunge riflessioni inopportune – non perché sbagliate ma perché pesanti in una storia già ricca di spunti, citazioni e stimoli. Il buonismo, corretto politicamente, trabocca qua e là, spezzando la vicenda invece di sorreggerla. In questo senso il piccolo androide non troverà alieni o robot capaci di trasformarlo in un vero essere vivente, ma solo alieni robotizzati che lo tratteranno con utile affetto e gli doneranno niente più che un’illusione. Tristissimo il messaggio che tra diversi non ci si può amare: non a caso mancano figure di umani che accettino David senza fargli domande e lo amino per quello che è senza inquadrarlo in “mecha” o “orga”. Ma i temi di riflessione sociale sono tanti, troppi, e, condensati nel tempo del film, si accavallano senza trovare sempre uno sbocco soddisfacente.

IL FINALE TUTTO FUMO

Ovvio omaggio stilistico a 2001 Odissea nello Spazio, ondeggia verso il melò New Age. L’incontro con gli alieni-robot archeologi, capaci di clonare una persona dal passato restituendole la memoria per un solo giorno, è piuttosto discutibile. Anche clonando Ramses o Napoleone, non otterremmo mai i ricordi della persona, ma solo un corpo simile, con caratteristiche e propensioni genetiche analoghe a quelle dell’originale, a voler essere ottimisti.

A parte la sviolinata New Age al sapore di alieni-angeli-robot e ricordi interiori e paradisi individuali… non è razionalmente spiegabile come una civiltà avanzata come quella aliena, per clonare, necessiti di un’intera ciocca di capelli anziché pochi campioni per volta (che permetterebbero di rinnovare molto più a lungo la felicità del piccolo robot). O come non si possa ottenere nuovo materiale da clonare partendo dalla creatura riprodotta, o inventare un robot mamma a misura dei ricordi di David. Le mie sono constatazioni razionali, il finale invece vorrebbe parlare al cuore ma, dati i presupposti, non mi convince. La giornata con la mamma è una fregatura mascherata da gran premio, una ricostruzione onirica basata sui ricordi e i desideri di David, il tutto con mille limiti e l’obbligo di non dire a mamma la verità. In più, lo stesso David dimostra di non essere granché vispo: rimanendo secoli e secoli sotto il mare ad attendere, pregando la fata invece di cercare la mamma umana o farsi adottare dal Gigolò. La conquista del sognare, per David, cosa significa? Stilisticamente è analoga al Bambino Cosmico in cui si evolve l’astronauta di 2001: Odissea nello spazio, ma lo spettatore di Kubrick era preparato a un’atmosfera filosofeggiante da tutta una serie di sequenze che lo distaccavano dal concreto. Spielberg invece, fino a poco prima, rimane su un piano ben materiale, dove la poesia è sommessa e non è il primo dei linguaggi.

Dunque David si spenge nel sonno poiché le batterie gli si bloccano, “morendo” insieme alla mamma? Oppure elabora il sognare e questa maturazione lo porta ancor più vicino a un umano? Potrebbe essere questo il senso, che si riallaccerebbe a Kubrik, solo che una simile sequenza non viene preparata, e chi guarda non riesce a capirla.

E, se David sopravvive, cosa significherà per lui la memoria di quel giorno? Purtroppo Spielberg ha scelto così, creando un finto lieto fine, un paradiso per Androidi che sognano Mamme Elettriche.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE  https://www.terrediconfine.eu/i-a-intelligenza-artificiale/

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