PINOCCHIO - sceneggiato
Realizzare un film fantasy è un’impresa oggi accessibile a un buon numero di registi; magari il risultato sarà soltanto un intrattenimento onesto invece di un indiscusso capolavoro, tuttavia molte difficoltà sono sormontabili. Quando si toccano testi fantastici famosi, di alto valore letterario e fama mondiale, arrivano i problemi, poiché le aspettative dello spettatore sono alte e influenzate da eventuali trasposizioni precedenti. Pinocchio è uno di questi casi; il libro è stato tradotto in quasi tutte le lingue, e potenzialmente il soggetto può essere venduto bene in tutto il mondo. I produttori spesso non hanno calcolato le reali difficoltà imposte dalla vicenda. E’ un’impresa rendere le atmosfere fiabesche, la particolare ambientazione storica, la narrazione sospesa tra prodigi e realismo, senza scadere nel ridicolo o esagerare con i luoghi comuni e col moralismo. Forse per questo motivo le pellicole prodotte fino ad ora dedicate a questo personaggio sono state poche, almeno rispetto ad altri soggetti dell’immaginario giovanile, come Robin Hood, I tre Moschettieri o Sandokan.
La trasposizione dell’epoca del muto, interpretata da Polidor è ovviamente figlia dei suoi tempi, e vista oggi fa sorridere per la mimica esagerata e i trucchi artigianali.
Il film girato a Viareggio negli anni ’40, è assai fedele al testo, ed è oggi introvabile. A farlo scivolare nell’oblio, le ingenuità dovute ai limitati mezzi tecnici di un tempo, alla regia modesta, alla morale esplicita e semplicistica. Queste caratteristiche lo hanno fatto invecchiare presto e male, e oggi lo relegano a curiosità per cinofili irriducibili.
Il cartoon Disney ha una bella animazione e una colonna sonora favolosa, reinterpretata anche da Louis Armstrong; purtroppo è assai distante dallo spirito delle pagine. Solo una minima parte degli eventi narrati da Collodi si ritrova sullo schermo, e i personaggi sono irriconoscibili. E’ la conseguenza di aver voluto globalizzare il romanzo: il burattino personaggio amato in tutto il mondo diventa un balocco tirolese, e la sua avventura si riduce ad una fiaba innocua, priva di ogni connotazione storica o geografica. Tutto si riduce alla morale puritana del dover comportarsi bene per ottenere quanto si desidera, e alla certezza di poter raggiungere quanto si agogna se ci si crede per davvero, anche se le condizioni di partenza giocano a sfavore.
La serie animata giapponese pure si distacca dal testo, e ha come scusante la minore conoscenza del soggetto da parte degli orientali. Nel corso delle svariate puntate compaiono personaggi e situazioni mai scritte da Collodi, però i bambini si divertono e non ci sono pretenziosità inopportune.
Si torna alle origini invece con lo sceneggiato firmato da Comencini per la RAI nel 1972. E’ stato distribuito sia come miniserie da sei puntate di 320 minuti, sia come miniserie da cinque episodi di 280 ,minuti, sia come film per le sale di 135 minuti. Il fatto che ne esistano versioni tanto diverse per durata riflette la voglia di sperimentare della televisione di allora, e il forte impegno produttivo. Pinocchio doveva non solo diventare un classico da replicarsi negli anni, doveva poter varcare i confini nazionali e arrivare in canali stranieri che usavano altri format, e addirittura sul grande schermo... Coerentemente alle aspettative, venne girato a colori, con attori di primo piano, e effetti speciali all’avanguardia per quegli anni.
Con simili premesse, e la direzione di un Maestro come era Comencini, i risultati non si fecero attendere, sebbene sia un’opera non priva di difetti e forse poco accattivante per i bambini.
Finalmente l’ambientazione rispetta il contesto geografico e la realtà storica della società dei tempi di Collodi. Non ci sono date e luoghi precisati, e da svariati particolari si potrebbe supporre siano gli anni del dopo unità d’Italia. Il paese di Geppetto è un borgo dell’Italia Centrale, la miseria è grande e tanti sognano di andare in America mentre altri cercano di sopravvivere come riescono. Lo stato fa quello che può quando e come può, i ragazzi vestono alla marinara e sembra che per essi non ci sia altra aspettativa che divenire compassati “signorini” di città o aspiranti avanzi di galera. In questo imprecisato paese i carabinieri girano in coppia come nelle barzellette, la legge è amministrata da giudici improbabili e corrotti, i girovaghi intrattengono la gente nelle piazze di paese, e per quanti si permettono il lusso di frequentarla, la scuola ha maestri rigidi e formali.
Geppetto è vedovo, vive da solo in una casa dove il fuoco è dipinto su una parete, patisce freddo e stenti. Di lavoro ne ha poco, forse per la concorrenza di Mastro Ciliegia, o perché la gente è povera e non ha soldi da spendere, o perché abbattuto dalla morte della moglie si è lasciato andare. Un giorno Geppetto assiste al passaggio della compagnia di Mangiafuoco il mastro burattinaio. Per poter guadagnare qualche soldo, o magari per tenersi compagnia con una figura che ricordi un figlio mai avuto e tanto desiderato, si costruisce un burattino con un pezzo di legno a lui donato dal collega falegname. Verosimilmente, Mastro Ciliegia dona il ciocco perché è incantato, parla e si muove e quindi non può utilizzarlo per i suoi mobili. La creatura viene costruita, e si libera la magia, il burattino si muove e parla da solo, senza fili. Viene subito trasformato in bambino dalla Fata dai capelli turchini, che appare mentre Geppetto dorme, e ha i tratti della defunta moglie.
Nel corso dello sceneggiato ci sono parecchie modifiche motivate da esigenze sceniche o da coerenti scelte del regista. Comencini ha scelto di dare voce a una storia semplice ed eterna, nata dalla penna di un uomo vissuto nei pressi dell’allora popolare zona del Mercato Centrale di Firenze, da genitori che lavoravano alle dipendenze della nobile famiglia dei Ginori. La fiaba è quindi rivisitata con lo sguardo degli umili, con una netta posizione ideologica e con adattamenti che spesso mettono in bella mostra le ingiustizie sociali.
Vige da subito la convenzione che il bambino Pinocchio torni ad essere burattino ogni volta in cui si comporta male. In molti casi le marachelle sono provocate dai bisogni stessi del piccolo, che prova la fame e il freddo, e l’incomprensione della gente indurita dalla miseria e dell’ignoranza. Neppure la Fata dai Capelli Turchini si salva dall’atmosfera cupa che grava sulla vicenda. Inizialmente appare dolce e malinconica, come se fosse davvero il fantasma della moglie di Geppetto. Nel corso delle puntate, pronuncia frasi piuttosto classiste, come la considerazione che se non si studia non si può avere una vita onesta… Avesse detto che se si resta ignoranti si finisce per essere sfruttati, sarebbe stata un’amara constatazione da interpretare a seconda della propria posizione politica. In un mondo preindustriale, in cui la campagna richiedeva manodopera, le nascenti fabbriche avevano poche pretese sulla qualifica degli operai e gli artigiani specializzati o i piccoli commercianti erano stimati membri della comunità, la dichiarazione è anacronistica. Quasi tutta la popolazione italiana, per la fata, è composta da potenziali delinquenti. La leggiadra creatura nasconde uno spirito reazionario, e sarà un caso, la sua villa con la struttura di ferro battuto e vetro, ricorda, oltre al Palazzo de Cristal a Madrid o la costruzione posta nel Giardino dell’Orticultura a Firenze, una bomboniera, e pure una gabbia per uccellini, ovviamente d’ epoca.
La Fata ha il volto di Gina Lollobrigida, e tutti gli interpreti, a parte il piccolo protagonista Andrea Balestri, Lucignolo e alcuni ragazzini che spariranno dalle scene dopo aver partecipato ad un paio di sfortunate pellicole, sono volti amati del nostro cinema. Geppetto ha il volto di Nino Manfredi, che presta la voce espressiva alla struggente canzone della sigla e lascia immaginare attraverso intense inquadrature tutto il suo dramma umano. E’ un vero saggio di bravura, il suo, una prova memorabile come raramente la televisione elargisce.
Il Gatto e la Volpe sono affidati a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Con estrema coerenza, tutti gli animali parlanti presenti nel romanzo divengono uomini dalla fisionomia particolare; nel caso del Gatto e della Volpe, sono saltimbanchi abbigliati e truccati come animali.
La fotografia incanta gli adulti con i suoi colori spenti, i primi piani intensi, le inquadrature che ammiccano ai quadri della scuola livornese e dei molti autori della Firenze di fine secolo. I colori polverosi rendono bene l’impressione di un miracolo inserito nella realtà, e sono distanti anni luce da certe illustrazioni o da quanto potrebbe suggerire l’immaginario di un ragazzino d’oggi. Un esempio su tutti, il Paese dei Balocchi, rappresentato come un luna park d’epoca, un luogo circoscritto, con giostre, circo e zucchero filato, nulla più di una Mirabilandia stile liberty. Ogni dettaglio, se possibile, è stato ricondotto al realismo, non tanto per svilire la favola, quanto per esaltare la fusione del fantastico col reale. La scelta ben si addice ad un romanzo sui generis, che non è una fiaba e neppure una favola, e che attinge, come ogni capolavoro che sia tale, dall’immaginario della gente, tra suggestioni popolari e dotte.
Il Pinocchio di Comencini soffre di un unico, doloroso limite. I primi dieci capitoli occupano due puntate e mezzo, gli altri, una ventina, sono sintetizzati nella seconda parte. Per poter rientrare nei tempi previsti, gli sceneggiatori hanno scelto di sviluppare solo alcune parti, e di sintetizzare oppure ometterne altre, creando una narrazione disarmonica agli occhi di quanti conoscono il romanzo. La selezione colpisce in primis quanto male potrebbe venir rappresentato con trucchi artigianali, ed è comprensibile. Nonostante sia stato richiesto l’aiuto di Carlo Rambaldi, il creatore di E.T., che fece causa vincendola poiché le sue invenzioni non gli vennero attribuite e ricompensate, il burattino è proprio un burattino. Ne esistono più modelli adatti a varie situazioni, e tutte sono statiche rispetto agli animatronic. I pochi effetti speciali sono perfettamente armonizzati con il tono della narrazione, e sono retrò. Per la stessa ragione gli animali antropomorfi sono attori con protesi e trucco che li fa assomigliare alle bestie. Il Pescecane è invece una grossa Balena, e scompaiono personaggi minori come i conigli. La trasformazione in somari è poi lasciata immaginare, con un montaggio furbo e dialoghi che suggeriscono il dramma.
Gli altri tagli invece riguardano soprattutto gli episodi degli ultimi quindici capitoli, e creano una sproporzione tra le magnifiche prime puntate e il resto del racconto che si affretta verso l’epilogo.
Il finale interrompe la narrazione al momento in cui Pinocchio e Geppetto raggiungono la riva del mare. Il protagonista è divenuto definitivamente bambino nel ventre della balena, che ben si presta a simboleggiare una nuova nascita. In questo modo è stato eliminato l’ultimo capitolo del racconto, quello che descrive un Pinocchio divenuto fulgido esempio di virtù, una creatura che niente ha a che spartire con la natura ribelle di un burattino ma neppure con l’essere un bambino in carne ed ossa, vivace e curioso.
Nominando Pinocchio, verrebbe da immaginare un prodotto diretto ad un pubblico di giovanissimi, colorato e giocoso. La versione televisiva è invece tutto tranne che infantile, retorica o bamboleggiante. Forse piaceva poco ai ragazzi di allora e per molti fu una delusione, si aspettavano costumi colorati, scenografie maestose e fiabesche, trasformazioni e prodigi resi in senso letterale. Probabilmente scontenta anche i giovanissimi di oggi abituati alle magie della grafica digitale: è un’opera che sottomette il realismo magico alla riflessione sociale e si gusta meglio da adulti. Nonostante la sproporzione vistosa, lo sceneggiato è rimasto attuale, e maturo nei toni: è un raro capolavoro che sopporta perfettamente gli anni proprio per la coerenza ideologica ed estetica.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
La recensione è stata edita da FENDENTI & POPCORN. Se la volete adottare, ditelo !
Crea il tuo sito web con Webador