SANDOKAN
Il 6 gennaio 1976, alle ore 20,30 su Rai 1 andò in onda la prima puntata dello sceneggiato Sandokan. Si trattava di una coproduzione allestita da Italia, Francia e Germania, con un cast internazionale e mezzi tali da consentire anche la distribuzione cinematografica. Diretto da Sergio Sollima, il Sandokan televisivo è da considerarsi indubbiamente una pietra miliare. Per la prima volta un soggetto d’avventura appariva sui teleschermi, e si rivolgeva agli spettatori con un linguaggio moderno, vicino a quello del grande schermo. Prima di allora, gli sceneggiati affrontavano temi d’avventura, di azione, con un atavico impaccio e troppi compromessi. Il confronto con il linguaggio del cinema era improponibile e anche un film degli anni ’30 sembrava più avanzato, soprattutto per i movimenti di macchina e il conseguente montaggio.
Sandokan era un soggetto ‘classico’, nella tradizione educativa della rete nazionale, abbastanza popolare da compiacere i partiti della Sinistra, sufficientemente classico per piacere alla Destra, abbastanza disimpegnato per sfuggire a ideologizzazioni esplicite.
Le avventure di Sandokan, principe deposto nella Malesia ancora sottoposta al dominio coloniale della corona britannica, si sviluppano nel corso di svariati romanzi, alcuni scritti da Salgari e altri da tanti altri emuli. Lo sviluppo dell’intreccio dello sceneggiato segue abbastanza liberamente i libri, traendone molti spunti e distaccandosi da una trasposizione letterale.
Troviamo eventi diversi da quelli previsti dall’autore, ciononostante il tono narrativo vivace, traboccante di azione, esotismo, erotismo blando e ammiccato, è mantenuto intatto.
Sopravvive il senso di meraviglia e di avventura da romanzo popolare, per quanto potesse essere “popolare” l’hobby della lettura agli inizi del secolo, con tanto analfabetismo diffuso in tutta l’Italia.
Cosa c’entra allora Sandokan con il cinema di genere fantastico?
Sembrerebbe una romanzesca storia d’avventura esotica, con qualche accenno di sacerdoti della dea Kali e il misticismo degli Yogi. A mio personale avviso, c’è di più: Sandokan è l’eroe di un’ucronia creata da Emilio Salgari (1862 – 1911). Lo scrittore, senza mai aver viaggiato, diede vita ad un Oriente immaginifico, popolato di pirati temerari, di bellissime fanciulle, di crudeli tiranni. Basandosi sui resoconti degli esploratori, descrisse città perse nella giungla, combattimenti con armi esotiche, popoli dalle usanze bizzarre per gli Europei dell’epoca. I riferimenti ai fatti storicamente accertati sono labili, nonostante di tanto in tanto studiosi e appassionati tentino di localizzare Mompracem oppure di dare un volto ai personaggi. Siamo molto vicini a quanto Sprague De Camp proponeva per l’heroic fantasy: “si entra in un mondo dove tutti gli uomini sono forti, tutte le donne sono bellissime, la vita è sempre avventurosa, ogni problema ha una soluzione semplice, e nessuno parla mai delle imposte sul reddito, del disadattamento o delle assicurazioni sociali”. Il desiderio di una sana e consapevole evasione era avvertito dalla castigata società borghese di fine Ottocento, ed era lo stesso bisogno che qualche decennio più tardi avrebbe portato alla nascita di eroi quali Conan, Salomon Kane, Sonia la Rossa.
Sostituite ai nerboruti barbari un principe spodestato dall’aspetto esotico quanto basta a catturare le simpatie dei lettori, armatelo di scimitarra invece che di una spada forgiata con il potere del dio Crom, fatelo aggirare tra giungle tropicali e rovine di antiche città invece di esplorare sotterranei e torri stregate. I nemici saranno i colonialisti dotati di una tecnologia più avanzata, invece di stregoni e re corrotti dal potere. Il gioco è fatto, avrete tra le mani Sandokan e il suo variopinto mondo d’invenzione. La verosimiglianza passa in secondo piano, né è un’esigenza avvertita dai lettori; se un’eco del presente affiora, è semmai la vicinanza dell’eroe letterario alla figura di Garibaldi così come ci è stata tramandata, e il parallelismo tra l’India coloniale e l’Italia preunitaria. Il resto, con buona pace di quanti si sono affannati a cercare documenti e mappe negli archivi del Sud Est asiatico, è fantasia. Lo sceneggiato cattura il senso di meraviglia proprio delle pagine, e le molte licenze ne rispettano lo spirito.
Gli episodi memorabili sono molti, dalla fuga dell’eroe che si fa credere morto, alla caccia alla tigre, alle nozze con Marianna. Inventata è la morte dell’amata: nei romanzi Marianna è morta di malattia. Tra l’ altro la sua fine viene raccontata nel sequel I pirati della Malesia, avviene tra una puntata e l’altra, e la bella viene liquidata con due o tra righe di rimpianto per la gioia di quanti amano l’avventura con poche incursioni sentimentali.
La trama televisiva modifica, taglia o sviluppa le pagine per adattarle al ritmo dilatato di sei puntate di un’ora circa. Il ritmo narrativo, pur avvicinandosi al linguaggio cinematografico, lascia spazio a lunghe descrizioni delle usanze e dei luoghi. Oggi molte sequenze possono apparire prolisse, tuttavia erano ben motivate negli anni Settanta: il turismo di massa stava muovendo i primi passi, poche persone potevano permettersi di visitare località esotiche e portare souvenir, i rari documentari spesso erano in bianco e nero. Le immagini a colori accesi delle foreste pluviali e dei mari cristallini incantavano la platea, e il regista scelse di sovrabbondare con il folclore, quasi si trattasse di un documentario. Come negli scritti di Salgari, si ammirano cibi, danze, mobili, abiti, armi ed accessori provenienti da qualsiasi parte dell’Oriente, che sia Indonesia, Cambogia, Vietnam, Tailandia o India poco importa. L’esotismo e la spettacolarità erano indispensabili per consentire un adattamento rispettoso delle atmosfere create dall’autore.
Il grosso pregio dello sceneggiato è che riesce a divertire lo spettatore, mantenendo con questi un tipo di rapporto analogo a quello che dovette avere la pagina di Salgari col suo lettore tipico: non un ragazzino o un adolescente, quanto il borghese o il cittadino istruito amante delle peripezie vissute sedendo in una comoda poltrona. Il senso di meraviglia suscitato dalle immagini e il desiderio di sognare avventure straordinarie sono gli indiscussi protagonisti dello sceneggiato.
L’introspezione si limita solo apparentemente a pochi tratti essenziali; la sceneggiatura infatti seleziona molti episodi, e la psicologia dei protagonisti ha modo di emergere dalle situazioni inscenate, come è giusto che sia in una vicenda d’avventura esotica.
E’ difficile non affezionarsi ai personaggi, grazie anche alla bravura degli interpreti. Di pellicole dedicate a Sandokan ce ne sono state tante, tuttavia Kabir Bedi, attore di origine Sikh, è stato il volto più celebre. In anticipo sulla moda dei cartoni animati giapponesi, la sua immagine è stata sfruttata per realizzare gadget rivolti soprattutto ai più piccoli. Comparvero magliette con la tigre della bandiera o con l’eroe in azione, le immagini del film finirono sulle copertine dei quaderni, la nota ditta di bambole Furga riprodusse i principali personaggi, le edicole furono invase dagli album delle figurine e per Carnevale il costume dell’eroe completo di scimitarra spopolò. La sigla realizzata dagli Oliver Onions, è diventata un piccolo cult, riproposta in qualsiasi chiave, parodia inclusa. Quanto a Kabir Bedi, è stato vittima del ruolo e ha continuato per qualche anno a replicarlo in film e teleromanzi, per poi divenire un’acclamata stella di Bollywood e partecipare occasionalmente a film internazionali. Ancora più bravo e fortunato è stato Philippe Leroy; il suo Yanez rivaleggia e supera per simpatia lo stesso Sandokan. Il portoghese ha scelto di schierarsi dalla parte degli indigeni oppressi per libera scelta, per gusto dell’avventura, della sfida, dell’ideale, come il Corto Maltese dei fumetti di HugoPratt. Anche nella vita Leroy è stato avventuroso: appassionato di paracadutismo, ha continuato a lanciarsi anche in tarda età, ed è ancor oggi attivo nel mondo del cinema.
Adolfo Celi (il cattivo, cinico e a suo modo nobile James Brooke) ha avuto una carriera di tutto rispetto sullo schermo e a teatro. Il suo Brooke è un uomo figlio dei suoi tempi, costretto al ruolo di tiranno dalle convenzioni sociali, dall’essere nato nella Nazione allora più potente. Combatte Sandokan e i suoi tigrotti, si pone dilemmi sui suoi doveri di suddito della corona britannica. Fosse nato in Malesia, si sarebbe comportato proprio come il suo avversario.
I comprimari sono ovviamente meno approfonditi, a partire da Lady Marianna, interpretata da Carole André. Nel romanzo la Perla di Labuan ha uno spazio esiguo, offre l’occasione di inserire qualche descrizione velata di erotismo suggerito, ed è una sorta di ricompensa per l’eroe. Nello sceneggiato affianca Sandokan pagandone le conseguenze. Nel suo caso la sceneggiatura modifica pesantemente le pagine, introducendo la presenza della bella giovane in svariate occasioni, eppure resta sostanzialmente un gran bel premio partita, come la bella da salvare dei videogiochi degli anni Ottanta.
Né i militari britannici hanno rilievo, con Andrea Giordana impacciato nell’uniforme di Sir William Fitzgerald.
I copioni dei tigrotti sono affidati ad attori malesi; può darsi che in patria fossero volti famosi, o lo siano diventati in seguito al successo dello sceneggiato. Non tutti sono grandi attori, tuttavia l’insieme funziona.
Di certo il Sandokan televisivo fu realizzato con mezzi consistenti e gli sforzi di Sollima si vedono tutti. Occorsero ben quattro anni per il ciak finale. I set furono allestiti in svariate località dello Sri Lanka e della Malesia, luoghi incantevoli e relativamente a buon mercato. Spiagge coralline e foreste lussureggianti prendono il posto di sfondi dipinti e gigantografie sfocate, gli interni sono arredati con proprietà e nel caso di ambienti indigeni, si vedono mobili che farebbero la fortuna di un antiquario specializzato.
Trucco e costumi risentono della moda, e non è necessariamente un male, perché ogni pretesa di ricostruzione storica sarebbe una violenza perpetrata alla pagina. L’India di Salgari è una dimensione parallela in cui il tempo e lo spazio riflettono il nostro mondo, e ne sono lontani. Gli eventi narrati nei numerosi romanzi coprono molti anni, e non si hanno che rari accenni espliciti ai mutamenti della società. Come in una fiaba, il tempo si dilata e le avventure si sovrappongono. Ci sono contraddizioni e coincidenze inaspettate, il misticismo dei santoni e dei sacerdoti induisti ha i toni di una magia. Con una simile ambientazione, la rivisitazione fantasiosa è accettabile, soddisfa l’occhio ed è anche a suo modo filologica: si attiene allo spirito di Salgari, sospeso tra sogno e realtà.
Emblematica è la celeberrima caccia alla tigre della terza puntata. Sandokan affronta e uccide al volo la belva in una superba prova di montaggio e di abile uso dei mass media. Il colpo decisivo avviene tra il vedere e non vedere. Il momento del salto è mascherato, tagliato, sa poco di genuino: quasi che l’evento non sia in realtà avvenuto, neppure nella finzione scenica. Viene da ipotizzare che ci stato qualche errore scoperto in extremis e corretto nel modo più intelligente possibile per l’epoca, cioè tagliando l’eventuale metraggio sbagliato e non mostrando più l’evento nella sua interezza, né nei servizi del tg, né nelle figurine, né nelle videocassette oggi edite. Ma tanto basta, la scena si è impressa nella memoria, per quel bizzarro gioco che ci permette di ricordare più di quanto si è davvero visto, o di percepire di una scena particolari diversi da quelli veramente importanti, e magari interpretare quanto abbiamo creduto di vedere in chissà quale altra maniera. La tigre è presente ed assente nello stesso istante in cui viene visualizzata: c’è un prima, un dopo, manca il presente. Nel momento in cui ci illudiamo di aver in pugno la realtà, ecco che questa ci sfugge dalle mani e dallo sguardo.
I sequel tv, ”La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa” lasciano intatto il mistero, e forse è meglio così.
Lo sceneggiato vive di fantasie condivise, ed ancora oggi mantiene quella forza evocativa che faceva sì che ogni volta che ti alzavi per andare in bagno controllavi se nella tazza del water non ci fosse per caso un pitone.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
La recensione è stata edita da Fantasticinema
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